2010年8月14日星期六

LA CULTURA CINESE NON DEVE FARE PAURA

LA STAMPA
14.08.2010

FRANCO BRUNI

Gli economisti hanno sempre più bisogno di antropologi. Per capire dove va il mondo globalizzato occorre la geo-economia, cui serve la geo-politica. Ma entrambe richiedono «geo-cultura», dove siamo più indietro.

L’aspetto più rilevante, anche sul fronte culturale, è il ruolo dei Paesi emergenti e, in particolare, della Cina, con la quale l’Occidente sta cercando il giusto modo per rapportarsi. Si è parlato a sproposito di G2: un mondo governato da Cina e Usa. Mentre le relazioni sino-occidentali registrano continue incomprensioni e incidenti: dai diritti umani alla libertà del global web, da questioni strategico-militari, come Iran e Corea, a quelle ecologiche, ai bisticci nel Wto e sul tasso di cambio. Frattanto si rafforza l’influenza della finanza e della politica cinese in tutto il mondo. Se la qualità del dialogo fra Occidente e Cina non migliora saranno guai economici e politici.

Ed ecco la geo-cultura: il nostro atteggiamento verso la cultura cinese deve maturare più svelto. A volte sembra inceppato e sciocco. È come se pensassimo che, visto che ci imitano nelle forme dello sviluppo economico, che hanno abbandonato i loro vestiti per i nostri, che studiano nelle nostre università, i cinesi gareggino solo sul nostro stesso terreno e inseguano un adeguamento completo alla nostra cultura, lasciando la loro, millenaria, al folclore antiquario. È l’idea che la globalizzazione può avvenire solo sotto l’egida di una cultura essenzialmente occidentale. L’idea, insieme timorosa e arrogante, che la concorrenza di Pechino sia una minaccia dannosa ma che soccomberà se i cinesi non accetteranno del tutto, fra l’altro, la nostra concezione della democrazia.

Conviene provare a pensare diversamente. La Cina adotta strumentalmente nostri costumi e infrastrutture culturali, ma la cultura globale del futuro conterrà elementi irriducibili di quella cinese, che l’Occidente deve individuare e condividere per tempo, nutrendo così la sua disponibilità a un vero dialogo fra pari, a una diplomazia economica e politica, privata e pubblica, spogliata di paure aggressive, a una collaborazione senza supponenze con quello che potrebbe tornare a essere, come l’etimo del suo nome, il «paese centrale».
Gli elementi della cultura cinese ai quali fare attenzione fanno riferimento a quelli che, fin dai secoli lontanissimi, sono giunti in Europa dall’Oriente, per vie traverse e mediate, con una contaminazione certo non nuova, ma che va rinnovata e rafforzata. Alcuni di questi elementi, importanti per l’economia e la politica, impressionano chi, come me, è lungi dall’essere un sinologo.

A cominciare dalla densità di concetti e messaggi contenuta in ogni «mattone» del linguaggio con cui i cinesi si esprimono e ragionano. La scrittura ideografica è solo l’aspetto più evidente di un modo di pensare e comunicare più «quantistico» del nostro, dove il singolo carattere-vocabolo ha significati diversi persino a seconda della calligrafia e si collega agli altri con un’algebra più complessa di quella con cui le nostre lettere formano le parole e le frasi. Il linguaggio cinese ha una maggiore predisposizione del nostro a trattare le sfumature e la complessità e meno pretese di trasmettere messaggi neutri, oggettivi, adatti a una razionalità aristotelica. A ciò non è estranea la ritrosia con cui i cinesi accettano l’alternativa secca fra affermazione e negazione, vero e falso, bianco e nero, la loro grande confidenza coi vari toni di grigio.

E non è solo il confine fra il sì e il no che la logica cinese tende a sfumare, ma tanti altri confini che noi pretendiamo di considerare netti. Il confine, per esempio, fra individuo e collettività che il confucianesimo presenta in modo diverso dall’individualismo occidentale. Il confine fra l’oggi e il domani, con la maggior propensione dei cinesi a guardar lontano anche quando sembrano concentrati con avidità sul presente, anche quando soddisfano con impeto il loro piacere per l’azzardo, per il gioco, per la graziosità dell’effimero, anche quando cavalcano con apparente imprudenza cambiamenti rivoluzionari, subitanei e bruschi. E, ancora, a sfumare è il confine fra sostanza e apparenza: un confine che a noi dà ansia e sensi di colpa, mentre i cinesi accettano la legittimità della sovrapposizione-confusione fra forma, estetica, galateo, rito, mito, cerimonia, e ciò che apparenze e simboli vogliono significare. È sfumato anche il confine fra il diritto e le relazioni amicali e gerarchiche, personali e di gruppo. In molti modi la sfumatura dei confini investe poi quello fra vita e morte.

Un’iniezione di questo genere di elementi nel tessuto della cultura occidentale può generare contrasti e traumi. Ma può anche arricchirci e dar luogo a una mescola più adatta per affrontare i problemi con cui ci misuriamo. Una mescola più potente per gestire le complessità che la razionalità occidentale si sforza di semplificare in schemi cartesiani, con risultati sovente inadeguati. Proviamo ad accennare un elenco disordinato di possibili utilizzi di una cultura iniettata di cineserie. Servirebbe, innanzitutto, ad apprestare qualche cura alla nostra democrazia, che è in crisi per tante ragioni. Riusciremmo forse a: maneggiare meglio la compatibilità fra pubblico e privato, fra interessi individuali, corporativi e collettivi; trovare nuova forza per esaltare la complementarità fra i meccanismi di alternanza, tipo destra-sinistra, e convergenze e mobilitazioni indispensabili per grandi azioni collettive; accettare e, insieme, superare, i limiti sempre più clamorosi della legittimazione elettorale del potere; impostare relazioni internazionali meno muscolari e riconoscere sostanziali poteri sopranazionali per un mondo globale, prima ancora di averli legittimati all’occidentale; riaffermare lo stato di diritto e l’indipendenza del potere giudiziario, comprendendo con più sereno realismo che non sono fini assoluti ma strumenti imperfetti.

Capiremmo inoltre meglio: come guardare al lungo periodo nelle nostre decisioni, pubbliche e private; come sposare l’anonimità del mercato economico, aperto a tutti, con gli affari basati su relazioni esclusive, personali e di gruppo; come accettare le inevitabili mescolanze del laico col religioso; come fare affari e politiche che sono davvero multiculturali, non perché usiamo algoritmi occidentali per evitare «scontri di civiltà», ma perché abbiamo un concetto meno arrogante dei confini di una cultura. L’impressione è che i cinesi siano da tempo al lavoro per studiarci, cercando la fusione culturale dove lasceranno il loro potente imprinting. Abbassiamo le difese e le paure e mettiamoci a lavorare anche noi per accelerare la scoperta della formula migliore per la mescola. C’è da guadagnare per tutti: non occorre fare i conti all’occidentale per esserne sicuri.

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